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L'ADOZIONE DI MAGGIORENNE 2.0

Si modifica la funzione dell’istituto dell’adozione del maggiorenne: da tutela della stirpe e del patrimonio dell’adottante, al riconoscimento giuridico di un rapporto umano di tipo familiare tutelabile ai sensi dell’art. 31 e 32 Cost.

Commento alla sentenza n. 2/2019 del Tribunale di Parma pubblicata il 27/02/2019

A cura dell’Avv. Veronica Frigi


L’adozione di persone di maggiore d’età è disciplinata dal Libro I, Titolo VII, capo I e II del Codice Civile (art. da 291 a 341).

Originariamente l'istituto nasceva per assicurare la discendenza a chi non l'avesse (rendendo, così, possibile la trasmissione del patrimonio e del cognome): l'interesse primario protetto da questo tipo di adozione, in altri termini, era quello dell'adottante, che, privo di discendenza, intendesse trasmettere il patrimonio ed il nome ad un soggetto cui era legato da rapporti di affetto.

L'adozione di persone maggiorenni era permessa, a norma del primo comma dell'art. 291 c.c.," alle sole persone che non avessero discendenti legittimi o legittimati, che avessero compiuto gli anni trentacinque e che superano almeno di diciotto anni l'età di coloro che essi intendono adottare". La Corte Costituzionale, prima con sentenza n. 557 del 19/05/1988 e poi con sentenza n. 245 del 20/07/2004, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale l'art. 291 c.c. -per contrasto con l'art. 3 Cost.- nella parte in cui non consente l'adozione a persone che abbiano discendenti legittimi, minorenni o, se maggiorenni, consenzienti.

In buona sostanza il contenuto precettivo dell’art. 291 c.c. è pressoché nullo, applicabile solo all’adozione di maggiorenni e pertanto non ha più significato il riferimento all’età minima di 35 anni e il secondo comma è da ritenersi implicitamente abrogato.

La L. 10.12.2012, n. 219, introducendo il principio della unicità dello stato di figlio, ha modificato l'art. 74, stabilendo che il vincolo di parentela sussiste sia nel caso che la filiazione sia avvenuta nel matrimonio, sia al di fuori di esso, sia quando il figlio è adottivo, ma ha espressamente escluso che la parentela sorga nel caso di adozione di maggiori di età. Questo, pertanto, rimane l'unico caso di filiazione che crea un rapporto esclusivamente con l'adottante.

Si tratta di un istituto civilistico assai diverso dall'adozione di minorenne, con altre finalità e con altri diritti/doveri nascenti in capo ai soggetti coinvolti, con altre procedure e presupposti.

L’art. 296 c.c. prevede il consenso sia dell’adottante che dell’adottato. Mentre l’art. 297 c.c prevede l’assenso dei genitori dell’adottando (anche se maggiorenne) e l’assenso del coniuge dell’adottante e dell’adottando.

L’art. 299 c.c prevede che l’adottato assuma il cognome dell’adottante e lo anteponga al proprio.

La normativa anteriore si limitava a precisare che l'adottato aggiungeva al proprio il cognome dell'adottante e, secondo l'opinione prevalente, lo posponeva. La L. 4.5.1983, n. 184 ha, invece, voluto attribuire una netta preminenza allo stato adottivo rispetto a quello originario, ma il principio è stato ampiamente criticato, soprattutto per la sua rigidità (Costanzo, La riforma dell'adozione. Prime osservazioni, in DG, 1984, 9; Rossi Carleo, L'adozione e gli istituti di assistenza ai minori, in Tratt. Rescigno, 4, III, 2a ed., Torino, 1987, 433; Procida Mirabelli Di Lauro, Dell'adozione di persone maggiori di età, in Comm. Scialoja, Branca, Bologna-Roma, 1995, 496).

Tali critiche sono ampiamente da condividere, tanto più che non sono ammesse eccezioni: l'adottando, infatti, che volesse solamente aggiungere e non anteporre il cognome dell'adottante, non potrebbe fare altro che rinunciare all'adozione (Dogliotti, L'adozione di maggiorenni, 444).


Questa rigidità risulta del tutto incomprensibile, tenuto anche conto del fatto che, con l'adozione, l'adottato conserva tutti i diritti e i doveri verso la propria famiglia di origine come successivamente statuito dall'art. 300 (Menotti, 19).

Tuttavia, la regola in base alla quale il cognome dell'adottante deve essere anteposto al proprio ha superato il vaglio del giudice delle leggi (Giusti, L'adozione di persone maggiori di età, in Tratt. Bonilini, Cattaneo, III, 2a ed., Torino, 2007, 584).

Secondo la Corte Costituzionale, la precedenza del cognome dell'adottante non è irrazionale, così come non costituisce violazione del diritto all'identità personale il fatto che il cognome adottivo preceda o segua quello originario. La lesione di tale identità sarebbe ravvisabile nella soppressione del segno distintivo, non certo nella sua collocazione dopo il cognome dell'adottante ( C. Cost. 7-11.5.2001, n. 120).

Ma i tempi cambiano così come i motivi che inducono all’adozione di maggiorenne.

L’attuale fluidità dei legami famigliari e dei nuovi rapporti che si instaurano all’interno delle nuove famiglie allargate, hanno fatto riflettere il Tribunale di Parma rispetto alla regola perentoria dettata dall’art. 299 c.c.

IL CASO

IL Signor O. nel 2003 contraeva matrimonio con la madre di V., con la quale già da anni conviveva insieme a V., avuta dal precedente matrimonio; all’inizio della convivenza V. aveva 3 anni. Fin da subito tra il Signor O. e V. si creò un profondo e significativo legame affettivo, al pari di quello con il padre biologico che, in ogni caso, non mancò mai al suo ruolo genitoriale.

E così V. è cresciuta oltre che con l’affetto dei genitori biologici, anche con quello del Signor O., che si è affiancato a loro nel crescere la bambina, condividendone di fatto le responsabilità genitoriali.

L’assunzione da parte del Signor O. della funzione genitoriale “sociale” fu un aggiungersi e integrarsi nei rapporti famigliari di V.

Dopo 20 anni tra convivenza e matrimonio nel 2015 il Signor O. e la madre di V. prima giungevano alla separazione consensuale, e poi nel 2016 al divorzio congiunto.

Tale era ed è il legame tra il Signor O. e V. che, anche dopo la separazione dalla madre provvide al mantenimento della ragazza.

Nonostante fosse vento meno il rapporto coniugale tra il Signor O. e la madre di V., rapporto che fino a quel momento aveva costituto il presupposto del legame e dell’assunzione di responsabilità genitoriale da parte del Signor O. verso V., i due proseguirono nel frequentarsi con assiduità come se nulla fosse cambiato.

Insomma: il Signor O. si è sempre comportato con V. come se fosse il padre, pur senza mai né sostituire né negare la figura del padre “biologico”; e V., di ricambio, si è sempre comportata come se ne fosse la figlia, pur continuando ad avere ottimi rapporti con il padre “biologico”.

Compiuta la maggiore età di V., il Signor O, con il consenso di tutti, ha inteso presentare ricorso al Tribunale di Parma per dare dignità giuridica ad un rapporto umano ed affettivo che si era sviluppato significativamente per oltre 20 anni, che aveva arricchito tutti i soggetti coinvolti senza escluderne nessuno, e che continuava a perdurare immutato nonostante fosse venuto meno la ragione che aveva creato il legame, ovvero il matrimonio con la madre di V., considerando anche che il rapporto tra i due era riconosciuto significativo anche dagli altri membri della famiglia, che vivono e hanno sempre vissuto la relazione tra il Signor O. e V. come arricchente. Sia il padre naturale che la madre, infatti, accoglievano con entusiasmo la proposta di adozione, ritenendo giusta la formalizzazione di un “rapporto di fatto” che perdurava da molti anni e non era più scindibile.

LA RICHIESTA DI DEROGA DELL’ART. 299 C.C.

L’istituto dell’adozione di maggiorenne nasce nella nostra cultura giuridica con lo scopo di tutelare il patrimonio dell’adottante che poteva così farlo confluire, sia in vita che in morte, al soggetto ritenuto degno.

L’evoluzione del diritto di famiglia ha portato dal 1975 ad oggi ad una vera e propria modificazione sociale dei rapporti famigliari, dei legami e delle ripartizioni delle responsabilità genitoriali, fino al punto che ora la giurisprudenza italiana, europea e della Corte Europea dei Diritti Umani sta sempre più frequentemente riconoscendo e proteggendo i legami famigliari non biologici che i figli instaurano con i compagni di vita dei genitori naturali.

La normativa prevista per l’adozione dei maggiorenni dagli articoli 291 ss del codice civile può certamente essere applicata anche se l’interesse dell’adottante ha solo indirettamente finalità patrimoniali, essendo - effettivamente - l’interesse al riconoscimento di un rapporto umano di tipo famigliare un fine lecito e tutelabile, ai sensi dell’art. 2, 31 e 32 della Costituzione.

In tale prospettiva, aggiornata e orientata alle mutate esigenze delle persone, l’istituto dell’adozione del maggiorenne perde totalmente il presupposto di natura patrimoniale che connota l’impianto normativo di riferimento, diventando viceversa l’aspetto patrimoniale una mera conseguenza rispetto agli obblighi di solidarietà che incombono al genitore adottivo anche del maggiorenne.

Nell’83, quando fu modificato l’art. 299 c.c., rispetto alla formulazione precedente venne previsto l’inserimento del cognome dell’adottante prima di quello dell’adottato.

Lo scopo, all’epoca, era meramente pubblicitario: l’anteposizione del cognome dell’adottante a quello dell’adottato avrebbe reso pubblico e certo il nuovo stato dell’adottato, e questo esclusivamente a fini patrimoniali e successori, trovandoci a quell’epoca solo al principio degli importanti mutamenti sociali che in quasi 35 anni hanno portato alla consacrazione della così detta famiglia allargata.

Tuttavia tale necessità, ovvero quella di dare pubblicità dell’identità della persona tramite il nome e il cognome, pare oggi del tutto superata poiché numerose sono le deroghe che l’ordinamento permette: l’art. 33 DPR 396/2000 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile) permette la variazione del cognome in alcuni casi, e il DPR 30/01/15 n. 26 ne ha abrogato il comma 1, che prevedeva che il figlio legittimato portasse il cognome del padre.

Chiunque poi, può (per motivi legittimi) chiedere la variazione del proprio cognome.

In buona sostanza il primo cognome non è più indicativo della stirpe famigliare e il legislatore lascia ampi margini alle persone per scegliere diversamente rispetto al sistema di tradizione romanica.

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo – fonte interposta del nostro ordinamento e parametro di costituzionalità, come stabilito dalle sentenze della C. Cost. n. 348 e 349/2007 – ha peraltro in passato accolto il ricorso proposto da due coniugi nei confronti dell’Italia, che aveva negato loro il potere di utilizzare il cognome materno anziché quello paterno per i figli (Corte EDU, sent. 7.01.2014, ricorso n. 77/07). Il motivo in quel caso era quasi “capriccioso”: la madre non voleva che con lei si estinguesse il cognome di famiglia. Ma la Corte ebbe a preferire il superiore principio di parità dei genitori.

La stessa Corte costituzionale, con la sentenza n. 286/2016, è intervenuta sul terzo comma dall’art. 299 c.c. stabilendo che è possibile, in caso di adozione di maggiorenni da parte di due soggetti, utilizzare il cognome di entrambi, secondo l’ordine da loro richiesto.

Insomma: le ragioni che, all’epoca dell’emanazione e per gli anni successivi, giustificavano un’interpretazione rigida dell’art. 299, comma 1, c.c., oggi hanno perso la loro forza in ragione della modifica della funzione dell’istituto dell’adozione del maggiorenne: da tutela della stirpe e del patrimonio dell’adottante, al riconoscimento giuridico di una relazione sociale, affettiva ed identitaria, nonché di una storia personale, di adottante e adottando. Ed è in ragione di tali principi, ormai unanimemente riconosciuti ad ogni livello, che l’interpretazione della disposizione deve adeguarsi, pena la violazione di princìpi costituzionali posti a diretto presidio dei diritti inviolabili della persona, che la nostra Costituzione riconosce e garantisce sia come individuo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art. 2 Cost.).

Nel caso di specie il motivo di deroga alla previsione legislativa è funzionale all’effettività dell’identità sociale, relazionale, affettiva e personale di V..

V. ha vissuto tutta la vita identificata dal cognome del padre naturale. Ha avuto e ha tutt’ora rapporti significativi con il padre biologico, che nulla ha mancato nella sua crescita.

In aggiunta al rapporto genitoriale con il padre biologico, V. ha vissuto, e tutt’ora vive, un secondo rapporto genitoriale paterno con il Signor O., un rapporto che deve essere riconosciuto per quel che è, nella sua interezza e nella sua pienezza, ma che si è aggiunto e integrato alla crescita identitaria di V.

La posposizione del cognome del signor O. al cognome del padre biologico, in deroga al comma 1 dell’art. 299 c.c., riflette esattamente la storia e i legami affettivi, sociali e umani che caratterizzano l’identità di V.

Nulla vieta quindi una deroga dell’art. 299 c.c. in considerazione di una lettura costituzionalmente orientata dell’istituto dell’adozione di maggiorenne, volta da un lato alla nuova funzione che assolve l’istituto, e dall’altro a un nuovo impianto giuridico di riconoscimento dell’identità della persona, dove il valore del cognome del padre dopo il nome ha perso completamente di significato, prevalendo altri interessi di rango costituzionale.

D’altro canto nessun nocumento può portare la deroga dell’art. 299 c.c. né all’Ordinamento dello Stato Civile, che come visto subisce già diverse deroghe, né agli interessi delle parti coinvolte, che anzi lo richiedono, non conseguendo di fatto alla deroga nessun pregiudizio né identitario né patrimoniale delle ragioni tutelate dall’impianto normativo dell’adizione di persona maggiore d’età.

E in quest’ottica che il ricorrente ha chiesto, senza in alcun modo inficiare la richiesta di adozione, che il proprio cognome fosse aggiunto e posposto a quello di del padre biologico di V., nel rispetto della sua identità così come già costruita, e nel rispetto del padre biologico, che nulla ha mancato, e che continua ad essere il padre di V.

LA SENTENZA DEL TRIBUNALE DI PARMA

Il Tribunale di Parma rileva come la Corte Costituzionale con sentenza n. 286 del 21 dicembre 2016 è intervenuta sul terzo comma dell’art. 299 c.c. stabilendo che è possibile, in caso di adozione di maggiorenne compiuta da due coniugi, attribuire, di comune accordo, il cognome di entrambi.

Considerato che all’epoca dell’emanazione dell’art. 299 c.c., e negli anni successivi, le motivazioni che giustificano una interpretazione rigida dello stesso articolo oggi hanno perso la loro forza, in ragione della modifica della funzione dell’istituto dell’adozione del maggiorenne: da tutela della stirpe e del patrimonio dell’adottante, al riconoscimento giuridico di un rapporto umano di tipo familiare tutelabile ai sensi dell’art. 31 e 32 Cost., nonché di una relazione sociale, affettiva e identitaria, di una storia personale tra adottante e adottato; ed è in base di tali principi, unanimemente riconosciuti ad ogni livello, che l’interpretazione della disposizione deve adeguarsi, pena la violazione di norme costituzionali poste a diretto presidio dei diritti inviolabili della persona, che la nostra Costituzione riconosce e garantisce sia come individuo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art. 2 Cost.).

Nulla vieta quindi una deroga dell’art. 299 c.c. in considerazione di una lettura costituzionalmente orientata dell’istituto dell’adozione di maggiorenne, volta da un lato alla nuova funzione che assolve l’istituto, e dall’altro a un nuovo impianto giuridico di riconoscimento del valore dell’identità della persona, dove l’attribuzione del cognome paterno dopo il nome ha perso completamente di significato, prevalendo altri interessi di rango costituzionale.

Nella fattispecie in esame la deroga alla previsione legislativa è giustificata dal fatto che V. si è sempre identificata con il cognome T. e ha tuttora rapporti significativi con il padre biologico; l’interesse dell’adottante ha solo indirettamente finalità patrimoniali, essendo – effettivamente – l’interesse al riconoscimento di un rapporto umano e di un legame affettivo che si è aggiunto e integrato alla crescita identitaria di V.

Parma, 28/02/2019


LEGGI LA SENTENZA

Il Tribunale di Reggio Emilia si pronuncia sul rimborso delle spese extra assegno in caso di affidamento esclusivo dei figli a un genitore

commento alla sentenza del Tribunale di Reggio Emilia Sentenza n. 1609/2018

A cura di Avv. Veronica Frigi

Il caso

La madre genitore con affidamento esclusivo delle due figlie minori fa ricorso per decreto ingiuntivo nei confronti del padre per recuperare il 50% di spese di logopedia e psicoterapiche eseguite non dal SSN e di un corso di musica e di karate.

Il padre oppone il decreto ingiuntivo e viene condannato alla rifusione delle spese richieste dalla ex moglie.

Il padre non demorde e fa appello, e sul presupposto che la sentenza di separazione poneva a carico del padre le spese non coperte dal SSN, contesta le spese di logopedia e psicoterapiche fatte privatamente e, in merito ai corsi di musica e Karate ne contesta la debenza in quanto estranee all’esigenza di istruzione delle figlie. Il padre poi aveva comunque rifiutato di sostenere dette spese per ragioni economiche.

La sentenza

La Suprema Corte ha espresso principi di diritto ormai consolidati in tema di rimborso delle spese straordinarie sostenute nell’interesse dei figli minori.

Devono intendersi per spese “straordinarie” quelle che, per la loro rilevanza, la loro imprevedibilità e la loro imponderabilità esulano dall’ordinario regime di vita dei figli, talché la loro inclusione in via forfettaria nell’ammontare dell’assegno, posto a carico di uno dei genitori, può rivelarsi in contrasto con il principio di proporzionalità sancito dall’art. 316 c.c. e con quello dell’adeguatezza del mantenimento, nonché recare grave nocumento alla prole, che potrebbe essere priva, non consentendolo le possibilità economiche del solo genitore beneficiario dell’assegno “cumulativo”, di cure necessarie o di altri indispensabili apporti (Cass. 9372/2012).

Peraltro, non tutte le esigenze sportive, educative e di svago rientrano tra le spese straordinarie (Cass. 21273/2013 rv. 627932; così anche Cass. 23630/2009).

È stato poi affermato che non è configurabile a carico del coniuge affidatario un obbligo di informazione e di concertazione preventiva con l’altro in ordine alla determinazione delle spese straordinarie, trattandosi di decisione «di maggiore interesse» per il figlio e sussistendo, pertanto, a carico del coniuge non affidatario, un obbligo di rimborso qualora non abbia tempestivamente addotto validi motivi di dissenso. Ne consegue che nel caso di mancata concertazione preventiva e di rifiuto di provvedere al rimborso della quota di spettanza da parte del coniuge che non le ha effettuate, il giudice – ai fini della corretta applicazione dei criteri previsti dagli artt. 147 e 316 bis c.c. – è tenuto a verificare la rispondenza delle spese all’interesse del minore mediante la valutazione della commisurazione dell’entità della spesa rispetto all’utilità e della sostenibilità della spesa stessa rapportata alle condizioni economiche dei genitori (Cass. 1070/2018, Cass. 16175/2015, Cass. 19607/2011).

Il genitore collocatario non è infatti tenuto a concordare preventivamente e ad informare l’altro genitore di tutte le scelte dalle quali derivino tali spese, poiché l’art. 155 comma 3 c.c. (oggi art. 337 ter c.c.) consente a ciascuno dei coniugi di intervenire nelle determinazioni concernenti i figli soltanto in relazione «alle decisioni di maggiore interesse», mentre, al di fuori di tali casi, il genitore non collocatario è tenuto al rimborso delle spese straordinarie, salvo che non abbia tempestivamente addotto validi motivi di dissenso (Cass. 15240/2018 rv. 649330; così anche Cass. 9376/2011).

In particolare, la S.C. ha precisato che «il mancato preventivo interpello del coniuge divorziato può essere sanzionato nei rapporti tra i coniugi ma non comporta l’irripetibilità delle spese (nella specie, relative all’iscrizione ad un corso sportivo ed all’attività scoutistica) effettuate nell’interesse del minore e compatibili con il tenore di vita della famiglia» (Cass. 2467/2016 rv. 638634).

È stato infine precisato che la condizione del “previo accordo” tra i genitori non può essere qualificata come meramente potestativa, non essendo rimessa al mero arbitrio della parte in cui favore è predisposta, ma ad essa deve riconoscersi natura giuridica di condizione potestativa semplice o impropria e quindi incompatibile con la finzione di avveramento della condizione di cui all’art. 1359 c.c., sicché, in mancanza dell’accordo tra le parti, è necessario l’accertamento giudiziale (Cass. 25698/2017 rv. 647282).

Quanto alle spese mediche, il padre lamenta che le cure logopediche e psicoterapiche, oltre a non essere urgenti, avrebbero potuto essere prestate dal S.S.N. e dunque le relative spese, sulla scorta di quanto disposto nella sentenza di separazione, non sarebbero rimborsabili. L’assunto non è condivisibile.

La sentenza di separazione ha posto a carico del padre l’obbligo di rimborsare alla madre la metà, tra le altre, delle «spese mediche non coperte dal S.S.N.». Il senso della suddetta limitazione va ravvisato nel presumibile contenuto costo delle spese mediche coperte dal S.S.N. che, dunque, non necessitano di rimborso.

Ciò non esclude che la madre, genitore affidatario, rivoltasi ad un medico specialista privato, possa avere diritto ad ottenere il rimborso della quota imposta al padre.

Al fine di escludere l’obbligo di rimborso, non è sufficiente che la prestazione sanitaria potesse essere effettuata anche presso una struttura pubblica. Si tratta di verificare, infatti, se tale spesa fosse superflua, inutile e non urgente. Il che non è senz’altro nel caso di specie.

Le spese logopediche e psicoterapiche – la cui necessità è lungi dall’essere contestata dall’odierno appellante andando a soddisfare i primari diritti alla salute ed allo studio delle figlie – erano imprevedibili ed eccezionali e dunque, tenuto anche per la loro ingente entità, non possono essere ricomprese nell’assegno di mantenimento.

L’eccezionalità della spesa è apprezzabile in relazione alla stessa eccezionalità di tali cure: tali interventi terapeutici valgono ex se a connotare l’eccezionalità dei relativi esborsi.

Non è poi francamente revocabile in dubbio l’urgenza di intervenire tramite specifici trattamenti riabilitativi in età scolare, che, com’è noto, tanto più sono tempestivi, stabili e regolari, quanto maggiormente risultano efficaci.

Infine, facendo applicazione dei mentovati principi giurisprudenziali, va evidenziata l’irrilevanza della inesistenza di un accordo tra i genitori circa le spese mediche in questione.

Quanto alle spese per il corso di karate ed il corso di musica per l’anno 2015/2016, il padre ne contesta l’ascrivibilità alle spese straordinarie per la loro estraneità alle esigenze di istruzione (cfr. pag. 3 dell’atto di citazione in opposizione a decreto ingiuntivo), in ordine ai quali, peraltro, nessuna consultazione con il padre sarebbe stata effettuata dalla madre, la quale aveva deciso di iscrivere le figlie a tali corsi nonostante l’opposizione da costui manifestata per ragioni economiche.

Nella specie, le spese in esame, di importo non trascurabile (pari complessivamente ad € 724,00 e dunque pro quota ad € 362,00), sono senz’altro straordinarie e prive del carattere della voluttuarietà, tenuto conto che l’attività sportiva e l’educazione musicale erano, soprattutto ad un’età come quella delle figlie (di otto e sei anni), di estrema utilità per la formazione personale e lo sviluppo psicofisico delle bambine, posto che il dovere di mantenere, istruire ed educare la prole, secondo il precetto contenuto nell’art. 147 c.c., impone ai genitori di far fronte ad una molteplicità di esigenze dei figli, certamente non riconducibili al solo obbligo alimentare, ma inevitabilmente estese all’aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario, sociale, all’assistenza morale e materiale. Stante le superiori considerazioni, a nulla rileva la circostanza che la madre avesse o meno comunicato al padre l’intenzione di fare frequentare i corsi de quibus alle figlie.

Ne consegue l’integrale rigetto dell’appello.

I principi fondamentali

In merito all’accordo dei genitori

Sono spese extra assegno di mantenimento quelle che, per la loro rilevanza, la loro imprevedibilità e la loro imponderabilità esulano dall’ordinario regime di vita dei figli.

Non è configurabile a carico del coniuge affidatario un obbligo di informazione e di concertazione preventiva con l’altro in ordine alla determinazione delle spese straordinarie, trattandosi di decisione «di maggiore interesse» per il figlio e sussistendo, pertanto, a carico del coniuge non affidatario, un obbligo di rimborso qualora non abbia tempestivamente addotto validi motivi di dissenso.

Nel caso di mancata concertazione preventiva e di rifiuto di provvedere al rimborso della quota di spettanza da parte del coniuge che non le ha effettuate, il giudice – ai fini della corretta applicazione dei criteri previsti dagli artt. 147 e 316 bis c.c. – è tenuto a verificare la rispondenza delle spese all’interesse del minore mediante la valutazione della commisurazione dell’entità della spesa rispetto all’utilità e della sostenibilità della spesa stessa rapportata alle condizioni economiche dei genitori.

In merito alle spese non coperte dal SSN

Quando la sentenza di separazione pone a carico del genitore non affidatario l’obbligo di rimborsare all’altro genitore la metà, tra le altre, delle «spese mediche non coperte dal S.S.N.» deve essere letta nel senso che la suddetta limitazione va ravvisata nel presumibile contenuto costo delle spese mediche coperte dal S.S.N. che, dunque, non necessitano di rimborso. Tuttavia, questo non esclude che il genitore affidatario, rivoltasi ad un medico specialista privato, possa avere diritto ad ottenere il rimborso della quota imposta all’altro genitore. Al fine di escludere l’obbligo di rimborso, non è sufficiente che la prestazione sanitaria potesse essere effettuata anche presso una struttura pubblica. È necessario verificare se tale spesa fosse superflua, inutile e non urgente. Va quindi evidenziata l’irrilevanza della inesistenza di un accordo tra i genitori circa le spese mediche in questione.

Quanto alle spese per il corso sportivo ed il corso di musica

Il genitore non affidatario contesta l’ascrivibilità alle spese straordinarie relative ad attività sportive o a corsi di musica, per la loro estraneità alle esigenze di istruzione.

Il Tribunale di Reggio Emilia, invece ritiene, che dette spese, di importo non trascurabile, sono senz’altro straordinarie e prive del carattere della voluttuarietà, tenuto conto che l’attività sportiva e l’educazione musicale sono di estrema utilità per la formazione personale e lo sviluppo psicofisico delle bambine, posto che il dovere di mantenere, istruire ed educare la prole, secondo il precetto contenuto nell’art. 147 c.c., impone ai genitori di far fronte ad una molteplicità di esigenze dei figli, certamente non riconducibili al solo obbligo alimentare, ma inevitabilmente estese all’aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario, sociale, all’assistenza morale e materiale. Stante le superiori considerazioni, a nulla rileva la circostanza che il genitore affidatario avesse o meno comunicato all’altro genitore l’intenzione di fare frequentare i corsi de quibus alle figlie.


Reggio Emilia, 08/03/2019



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